Articolo di Massimo Minella pubblicato oggi su Affari e Finanza (Repubblica).
Da notare che rispetto all'articolo precedentemente commentato, Minella fa marcia indietro: dalla 'Riscossa della Lanterna' si passa ad un'analisi più realistica della crescita al rallentatore di Genova e dei porti italiani, rispetto al boom spagnolo.
Curiosità: se fate caso, alcuni spunti trattati nell'articolo sono già stati argomentati proprio in questa discussione (anche dal sottoscritto), in tempi non sospetti. Ad esempio riguardo alla crescita dei porti spagnoli trainata dallo sviluppo economico nazionale, oppure riguardo alla necessità del porto genovese di 'sfondare' appennino e alpi per collegarsi ai traffici dell'Europa centrale. Ancora una volta le 'mie' idee appaiono dopo un po' sui giornali (vedere Novi e la volontà di cedere i terminal crociere ai privati), mai viceversa. Forse dovrei fare il giornalista...
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Cinque anni fa l’Italia era la prima nel Mediterraneo, ma ora sono Barcellona, Valencia e Algesiras a guidare le classifiche. Il loro balzo in avanti è dovuto alla più vivace crescita economica spagnola ma soprattutto al fatto che Madrid ha scelto di puntare su pochi scali
MASSIMO MINELLA
C’era una volta l’Italia dei porti. Regina incontrastata del Mediterraneo, capace di confrontarsi alla pari con i colossi del Nord Europa quando ancora il container non era merce per tutti i moli. Oggi quell’Italia c’è ancora, sia nei grandi porti storici (Genova, Livorno, Trieste, Napoli) che negli scali emergenti (Gioia Tauro, La Spezia, Taranto, Cagliari). Ma regina non lo è più, soppiantata senza mezzi termini della prepotente concorrenza spagnola. Nell’arco di un quinquennio, quella leadership riconquistata a fatica, passando attraverso stagioni di lotte e nuove leggi di riforma, è andata perduta a vantaggio degli scali della Spagna. Bastano pochi numeri per rendersene conto. Nel 2000 nessuno reggeva il confronto con l’Italia. La leadership era saldamente nelle mani di Genova con un milione e mezzo di teus (il teu è l’unità di misura del container e corrisponde a un pezzo da venti piedi) e di Gioia Tauro che, di teus ne movimentava 2 milioni 488mila. Essendo però Gioia Tauro un porto di transhipment (cioè un porto in cui il container arriva dalla nave madre e viene ricaricato sull’unità "feeder" più piccola) il numero rappresenta i movimenti ed è quindi doppio. Differenze a parte, sul trono c’era l’Italia. Barcellona viaggiava poco sopra il milione e 300mila teus, Valencia era appena più sotto. Lo scorso anno Genova è arrivata a un milione e 650mila (con una crescita di 150 mila teus in sei anni), Gioia Tauro è arrivata vicino ai tre milioni, ma Barcellona ha superato i due milioni 300mila teus e Valencia è addirittura arrivata oltre due milioni 600mila teus. E altri porti in questo periodo hanno cominciato o ripreso a galoppare a gran velocità, sostenuti da progetti di sviluppo che ipotizzano il raddoppio dei propri spazi in pochi anni, come nel caso di Marsiglia.
Intendiamoci. Non è detto che, in futuro, la clessidra non possa nuovamente tornare a girarsi verso la Penisola. Ma a dirla tutta il rischio concreto, a questo punto, è che il divario possa ulteriormente ampliarsi. Perché? Perché i porti spagnoli corrono mentre quelli italiani, nella migliore delle ipotesi, camminano? Le risposte, in estrema sintesi, possono essere due: i porti spagnoli, in questi ultimi anni, sono decollati in coincidenza con la crescita economica del Paese. Ne sono anzi stati la sponda ideale. Per tener dietro alla crescita della Spagna di Aznar e di Zapatero, infatti, diventava fondamentale dotarsi di porti efficienti in grado di fornire al Paese tutta la merce di cui aveva bisogno. E qui si introduce il secondo elemento: scegliendo di valorizzare l’asset portuale, il governo centrale ha deciso di scommettere su pochissimi scali, lasciando piena autonomia alle autorità locali. Così, si è venuto a creare un doppio baricentro marittimo: Valencia e Barcellona che dal 2000 a oggi hanno di fatto raddoppiato la loro quota di container, l’indicatore più concreto (anche se non esclusivo) per verificare lo stato di salute di un porto. Ma se crescita interna e oculata scelta di pianificazione sono gli elementi cardine del miracolo portuale spagnolo, vanno considerati altri elementi. Da sempre, infatti, i porti spagnoli inseriti in regioni dotate di forte indipendenza amministrativa godono a loro volta di autonomia finanziaria e fiscale. Trattengono cioè per sé una buona parte di quello che raccolgono in termini di tasse portuali e di imposte e lo reinvestono in infrastrutture. Così la merce che arriva nei porti viene subito inoltrata e arriva velocemente alla sua destinazione finale.
Ora provate a trasferire tutti questi elementi nell’Italia dell’ultimo decennio, con una crescita altalenante, una spaventosa frammentazione dei porti (le autorità portuali sono ventisei, i porti classificati sono 138 ) e una cronica incapacità di realizzare grandi e piccole infrastrutture. Sarà più facile capire, a questo punto, perché se gli altri corrono noi arranchiamo. Certo, visto che comunque la portualità moderna, intesa come movimentazione di container, è nata dentro al Mediterraneo negli scali italiani, nessuno ci sta a fare da spettatore. Anzi, la grande intuizione di Angelo Ravano, che a Gioia Tauro trasformò un fallimento pubblico (il porto siderurgico) in una grande iniziativa privata (il terminal container), rappresenta forse l’elemento più innovativo nella storia recente della portualità europea. Ma anche Gioia Tauro, come tutti gli altri porti italiani, ha bisogno di attenzione dal potere centrale, di condivisione pubblica delle grandi opere infrastrutturali. Da solo non può certo reggere la concorrenza crescente di tutti gli altri porti che si candidano a gestire l’enorme flusso di merce che dall’Asia entra dal canale di Suez e quella che esce dallo Stretto di Gibilterra.
E’ proprio su questa rotta, infatti, che l’Italia dei porti si gioca il suo futuro. La spinta asiatica finisce inevitabilmente per premiare tutti quanti, visto l’enorme volume di merce che assicura (oltre il dieci per cento di crescita annua). Ma anche in questo caso crea una gerarchia, favorendo i porti che meglio si attrezzano a servire la merce. Anche perché l’offensiva spagnola è tutt’altro che esaurita. Anzi, per certi aspetti è appena all’inizio e crea un effetto di emulazione che potrebbe presto mettere in campo nuovi concorrenti. Un sistema infrastrutturale efficiente, come quello che si sta realizzando in Spagna (e in Francia), non è solo utile al Paese ma è in grado di andare oltre, candidandosi a gestire l’intero percorso logistico della merce. L’Italia rischia quindi di trovarsi i porti spagnoli concorrenti anche all’interno di bacini "naturalmente" suoi, come il Sud e l’Est Europa. Il campanello d’allarme suona da anni. Ma questo, ad esempio, non è ancora servito a realizzare un’opera vitale come il Terzo Valico ferroviario fra Genova e Milano, l’unica opera in grado di permettere al porto principe italiano di agganciarsi alla rete europea ad alta velocità e di far correre le proprie merci fin nel cuore dell’Europa. Sarebbe veramente un delitto mortificare una realtà come il porto di Genova, che primo in Italia a completare il suo processo di privatizzazione, ha una necessità vitale di trovare al di là degli Appennini il suo sviluppo. Non è proprio un caso che, alla metà degli anni Novanta, fu la Fiat a scommettere sul nascente porto di GenovaVoltri per giocare la sfida dei mari. Poi le scelte del gruppo di Torino si indirizzarono altrove. Ma a Voltri sbarcò uno dei gruppi terminalistici leader al mondo, Psa, la Port Authority di Singapore, che continua a governare questo terminal.
[Modificato da Keynesian 07/05/2007 18.41]